“Se fossimo più umani ameremmo una cosa soprattutto: la memoria, le memorie nostre e delle nostre civiltà”. (H. Melville)
Storie, miti, leggende, favole, filastrocche, ninne nanne, canzoni: sono tanti i modi di raccontare e di raccontarci. Il racconto accomuna tutti, piccoli e grandi, in ogni latitudine; si racconta sempre, a partire da quella che è stata la nostra giornata, riportando cosa ci è successo o qualcosa che si è visto o ascoltato.
Raccontare storie non è solo questione di parole, ma è anche mettere insieme immagini, musica, gesti, emozioni in una trama da cui viene fuori un tessuto che connette le persone tra loro e in cui ciascuno può inserirsi e trovare il suo filo.
Dal racconto omerico alla Bibbia, dai cantastorie medievali ai racconti contadini, ci si trova di fronte a storie esemplari in cui ci “si riconosce”, storie dal valore universale che costruiscono una “cosmogonia” messa in piedi proprio per dare un senso, per educare, per spiegare, per dirci chi siamo e, come i rami di un albero, per “controbilanciare” la memoria insita nelle nostre radici.
Ed è proprio nell’infanzia che il racconto inizia a legarci a quell’immaginario condiviso di valori e concetti che articolano la conoscenza, la percezione e la rappresentazione del mondo circostante: “la terra che accoglie le nostre radici”. Nasce e si concretizza così, attraverso il racconto, il senso di ogni cosa, primo fra tutti il senso di appartenenza ad un certo ambiente e il rapporto tra noi e ciò che ci è più prossimo.
L’esperienza del racconto inizia non a caso da piccoli, perché è proprio allora che si entra in relazione con i tanti mondi della fantasia e dell’immaginazione. I bambini sono i soggetti più portati per questo tipo di processo: hanno ancora aperti i canali che li portano ad una comprensione, ad una vicinanza mentale con l’immaterialità che non necessita sforzo, dovuta alla loro abilità immaginifica.
Quando si cresce si tende a dimenticare, a mettere da parte il potere – benefico – della creatività fantastica e della possibilità di lasciarsi avvolgere dall’immaginazione, anche se questa ha a che fare con situazioni realmente avvenute ma che segnano la loro distanza da noi per il semplice fatto che appartengono ad un tempo lontano. Un contesto archeologico è il caso emblematico per illustrare questo processo: si tratta infatti di luoghi dove, per comprendere, non basta semplicemente guardare le rovine, ma è necessario un ulteriore sforzo mentale sia per interpretare gli usi e le funzioni di quelle strutture antiche che nel mondo di oggi sono andati persi, sia per ricostruire ciò che materialmente è andato distrutto. Quando i bambini vengono a trovarci sullo scavo e chiediamo loro di “cancellare tutti i segni della modernità con una grande gomma immaginaria” o di “osservare ciò che li circonda attraverso un binocolo magico che mette a fuoco solo le cose antiche” (un rigatone funziona benissimo come binocolo), sappiamo bene che nelle loro piccole teste loro riusciranno – molto meglio degli adulti – non solo a selezionare e isolare gli elementi che esistevano in un dato momento storico, ma anche a figurarsi ciò che c’era e che oggi non c’è più.
Ma raccontare una storia significa anche farla vivere per sempre, sublimarla in un istante mitico che preclude la “morte” e che la porta al tempo “senza tempo” della memoria. Sarà per questo che a noi archeologi, abituati per mestiere a riportare alla luce le cose del passato, piace così tanto raccontare le vicende ad esse legate. Abbiamo un’urgenza, quasi un bisogno ineludibile di eternare quelle storie e, con loro, quegli oggetti. Ma sappiamo anche bene che è solo attraverso un racconto e a patto che qualcuno l’ascolti, che possiamo, non solamente esporre i risultati delle nostre ricerche, ma anche – e oserei dire, soprattutto – avere la possibilità di fissare la memoria di un luogo e dei suoi abitanti antichi nelle vite dei suoi abitanti moderni, restituendo loro quelle radici identitarie solo apparentemente lontane e, insieme, quella voglia di tornare un po’ bambini per potersi immaginare meglio le tante facce che ha avuto, nel corso del tempo, il posto dal quale provengono…
Dopotutto, forse non è un caso che anche le “radici”, come i reperti, stiano sotto terra…
8 anni. Prima lezione di Storia. Una maestra speciale che m’incanta parlando della fine di Pompei e degli scavi che l’hanno riportata alla luce insieme alle storie dei suoi antichi abitanti. Quel giorno ho deciso che da grande avrei fatto l’archeologa.
E forse è per via di questo inizio che ancora mi trovo divisa tra la passione del fare ricerca sporcandomi le mani di terra e la consapevolezza che raccontare il nostro mestiere, soprattutto ai più piccoli, lo possa caricare di senso e di futuro.
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