I post del lunedì

Quel che resta del giorno (d’oggi)

Questa è la storia vera di come una ragazzina di 9 anni mi ha messo in crisi, dandomi l’occasione di pensare.

Quelle che seguono sono le riflessioni di una perfetta profana. Non posso che presentare un fenomeno dal mio punto di vista, cioè quello di una che per lavoro ricostruisce brandelli di eventi già accaduti a partire da semplici tracce. 

“L’archeologo è colui che ricostruisce la storia degli uomini del passato attraverso la raccolta e lo studio dei resti materiali. I reperti che trova, presi uno a uno, sono muti se non si pone le giuste domande, tipo: di cosa è fatto? A cosa serve? Chi lo ha fatto? Quando è stato fatto?…Tutto chiaro?”

“Sììì (coro)”

“Bene, immaginiamoci di essere degli archeologi del futuro che scavano esattamente nel punto in cui si trova la scuola. Quali reperti potremmo mai trovare secondo voi?”

“I banchi!”, “La lavagna!”, “I quaderni!”, “Le matite!”, “I cartelloni colorati!”

“Bravi! Ma secondo voi gli archeologi del futuro capirebbero subito cosa sono gli oggetti trovati? Considerate che nel futuro gli oggetti che usiamo oggi potrebbero non esserci più, come la carta, che potrebbe essere completamente sostituita da speciali computer….”

“Forse questi archeologi sarebbero un po’ confusi trovando un quaderno…”

“Esatto, quindi, per capire, dovranno farsi le giuste domande, esattamente come faccio io quando trovo i reperti degli uomini del passato.”

“….noooo Nina, guarda che non serve.”

“Cosa non serve?”

“Ma nel futuro non bisognerà farsi quelle domande.”

“Perché?”

“Perché c’è la tecnologia. Basterà usare il computer, l’archeologia non servirà.”

“…”

Raphaël De Filippo, “L’archeologia a piccoli passi”, Milano, Giunti, 2010, p. 5.

Ecco. E ora? Sono esattamente questi i momenti nei quali capisco quanto per me sia utile e intellettualmente stuzzicante la didattica. Gli attimi nei quali vieni messa in crisi e sei costretta a riflettere e concentrarti su argomenti che mai avresti pensato essere degni di tanta attenzione. Perché in qualche modo devi rispondere a quel ragionamento logico e apparentemente inattaccabile, non puoi sperare di farla franca cambiando semplicemente argomento, eh no.
E allora inizi a pensare…

L’archeologia è, in estrema sintesi, lo studio della storia attraverso la lettura della cultura materiale, espressione di una certa società in un dato tempo e in un dato spazio.
Dunque, quale è la cultura materiale che rappresenta l’uomo contemporaneo? La presenza, e la crescita continua, di sistemi di archiviazione dati, di tecnologia come mi ha detto Sofia, potrebbe rappresentare effettivamente un sostituto della ricerca archeologica?
Andiamo con ordine.
Partiamo da questi fantomatici dati. Di tutti i beni di consumo a disposizione dell’uomo contemporaneo, il consumo dello spazio virtuale è probabilmente quello più rilevante, almeno da un punto di vista numerico. Pensiamo alla quantità di sequenze di 1 e 0 che produciamo personalmente ogni giorno (tralasciando i dati prodotti per necessità o lavoro): quanti video, foto e post carichiamo regolarmente sui nostri innumerevoli profili? Quanti blog, siti, canali creiamo e aggiorniamo sistematicamente come fosse la cosa più naturale del mondo? Considerando che siamo circa 7 miliardi e mezzo e che una larga percentuale fa uso del web 2.0 (solo Facebook conta 1,54 miliardi di utenti attivi) non è necessario essere degli informatici per capire quanto consistente sia la mole di dati che staziona nella rete. Dati che descrivono dettagliatamente le vite (e le storie) della maggior parte di noi.
Probabilmente ha più senso parlare di cultura digitale piuttosto che di cultura materiale per definire il nostro presente storico. D’altra parte in quale altra epoca storica sono state prodotte così tante fonti (tra l’altro volutamente); la conoscenza del passato potrà essere alla portata di tutti con un semplice click e allora, in questo, ha ragione Sofia: l’archeologia non servirà più.
Ma siamo davvero sicuri? Al di là del fatto che questo ragionamento vale solo se diamo per scontata l’eterna presenza dell’energia elettrica, possiamo sentirci davvero sollevati dalla materna sicurezza, quasi neofuturistica, rappresentata dal web?!

Non lo so. Non lo so perché penso a come questa enorme quantità di dati, la cui crescita è esponenziale, debba essere gestita e non so se la costruzione di server sempre più potenti sarà sufficiente, data la velocità con la quale questi dati vengono prodotti.
Probabilmente avverrà una naturale selezione di queste informazioni, forse sta già accadendo: pensiamo a tutte le volte che aprendo un sito abbiamo trovato quella preoccupante sigla “404: file not found” oppure di tutte quelle volte che abbiamo ritrovato un floppy con dentro le fotografie della gita scolastica scattate nel 2002 e che stupidamente ci siamo scordati di passare su un supporto più recente.

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Penso che sia inevitabile, dopo tutto, che molte informazioni si perdano nell’oblio. Alla fine i dati che sicuramente verranno conservati e aggiornati (e anche quelli forse fino a un certo punto) saranno quelli che da un punto di vista economico e politico avranno importanza. Quindi è possibile che la cultura digitale, nell’ottica dei lunghi processi storici, sarà espressione di pochi e non di molti, un po’ come lo sono le fonti scritte del passato. Forse non sarà così immediato ricostruire la Storia. Forse sarà ancora necessario combinare diverse tipologie di fonti, comprese quelle materiali, per aver una panoramica più completa e chiara degli eventi del passato. Forse l’archeologia avrà ancora ragione di esistere. Non metto in dubbio, però, che gli approcci e le tecniche di indagine dovranno cambiare, il motivo è banale: è impensabile paragonare la cultura materiale delle società del passato, così come è intesa dall’archeologia contemporanea, con quella che produciamo noi oggi.

Cerco di spiegarmi meglio. Per semplificare presenterò solo due circostanze, perché le argomentazioni sarebbero, a mio parere, molte e molto consistenti.
Molti adulti trovano buffo che i bambini e i ragazzini di oggi non sappiano che cosa siano e a cosa servissero quelle scatoline cilindriche di plastica con il tappo, alte poco più di sei centimetri oppure scherzano sul fatto che le nuove generazioni non sappiano quale relazione ci sia tra una cassetta e una penna Bic. Materiale divertente per simpatici post su Facebook, ma anche interessante spunto di riflessione.

I mutamenti tecnologici, oggi, sono estremamente repentini e continui. La velocità con la quale si susseguono questi cambiamenti non trova corrispondenza con le trasformazioni sociali, e quindi storiche. Oggi abbiamo lunghe serie tipologiche di oggetti che si riferiscono a brevissimi archi temporali, mentre per il passato si presenta la situazione diametralmente opposta: brevi serie per ampie forchette cronologiche.
Altro fatto. La cultura materiale è espressione di una società di un dato tempo e di un dato spazio, ma chi studierà in futuro l’uomo del passato, cioè noi, avrà di fronte una cultura materiale globale, anzi globalizzata. È chiaro quindi quanto questa identificazione risulterà fallace o quanto meno incompleta.

K. Garrett, “Bambino messicano viene preparato per la danza del giaguaro”, 1999.

Mi sembra evidente quanto, in futuro, dovranno essere ripensate le strategie di indagine, ma questo non significa che l’archeologia in sé perderà di significato.

Tornando a Sofia. La scorsa settimana ho lasciato la situazione un po’ in sospeso. Le ho detto che la domanda era interessante e complessa e che per questo avevo bisogno di tempo per pensarci. Mercoledì tornerò nella sua classe e dovrò darle una risposta. Non potendo trasformare le ore di lezione in un seminario di archeologia teorica, penso che le dirò questo:

“Vedi Sofia, tu hai ragione a dire che il computer e la tecnologia sono utili perché ci danno tante risposte, ma non sono sufficienti. Non possiamo sapere quello che succederà in futuro, se avremo o non avremo ancora tutta questa tecnologia, ma di una cosa siamo sicuri: non smetteremo mai di lasciare tracce materiali del nostro passaggio e per questo l’archeologia servirà ancora. Magari cambieranno le domande che si faranno gli archeologi del futuro, ma questo non vuol dire che smetteranno di farsi domande.”

 

 

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