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Interfacce: si vedono o si fanno?

Non è mai facile spiegare a qualcuno che, se sei un archeologo, le cose che non si vedono sono importanti almeno quanto quelle che si possono vedere e toccare e a volte anche di più.

Anche perché se ti capita di parlare del tuo lavoro, la prima domanda che ti viene rivolta di solito è:

“Che cosa hai trovato?”

Il che presuppone che il tuo oggetto di ricerca, quello per cui sudi sotto il sole in estate o ti spazza il vento gelido in inverno, sia appunto un oggetto, qualcosa cioè che si concretizzi in un volume, una superficie, un colore, magari un peso… insomma, qualcosa che si possa vedere e toccare.

Già il fatto che questo qualcosa spesso non sia un oggetto ma “semplicemente” della terra, non piace molto al passeggero che ti siede davanti in treno e nemmeno alla signora in coda con te fuori da un qualche ufficio.

Figurarsi se ogni tanto provi a dire che quello che proprio ti piace di più è leggere le tracce lasciate nella stratificazione delle azioni dell’uomo o della natura.

Se volevi smontare la figura mitica dell’archeologo modello Indiana Jones, ce l’hai quasi fatta (evviva!).
Non vi dico poi le facce se e quando ti spingi oltre fino a dire che queste tracce possono essere anche … negative!
“No, non nel senso di brutte!”, devi affrettarti a dire, quasi a giustificarti.
“Negative nel senso che sono tracce di azioni che invece di produrre un aumento della stratificazione archeologica, come ad esempio la costruzione di un pavimento o l’accumulo di uno strato di spazzatura, sottraggono qualcosa alla stratificazione, come ad esempio lo scavo di una buca o la distruzione di un muro.”
A questa affermazione l’espressione del tuo interlocutore può sfoderare un bel punto interrogativo o virare verso l’incuriosito. Le migliori del primo tipo le ho incrociate all’interno di aule universitarie, dove, se studi per diventare archeologo, questi concetti base devi proprio saperli.

Le seconde invece sono quelle che si dipingono spesso sui volti dei bambini quando cerchi di spiegare loro di quali elementi è composta la stratificazione archeologica.

“Sotto a questo campo, che sembra proprio uno come tutti gli altri, ci sono milioni di tracce. Gli archeologi cercano di riconoscerle, identificarle e capire il loro significato… un po’ come degli investigatori”.

“Forte! E come si fa a riconoscerle?”

Questo è il momento in cui si comincia a parlare di come è fatta la terra sotto i nostri piedi; di solito la metafora della torta o della lasagna funziona bene per spiegare che la terra non è tutta
uguale, ma è stratificata, cioè composta di tanti strati diversi, uno sull’altro, più recente il più alto, più antico quello più in basso.

Illustrazione di Domenico Sicolo tratta dal libro “Il mestiere dell’archeologo” di Giovanna Baldasarre.

Fino qui ci siamo, tutto molto concreto.

Se li hai acchiappati con la metafora gastronomica, qui puoi fargli fare il salto verso l’astrazione: dietro ogni strato della lasagna o della torta, si nasconde una azione concreta.

“Il sugo della lasagna l’ha fatto la nonna!”

“Allora l’azione è fare il sugo!”

“Perfetto!”

“Si, ma la terra non è il sugo! Come si fa a sapere chi ha messo lì quella terra e perché?”

“Si è vero! E poi la terra è tutta marrone…”

“Qui vi sbagliate: non è tutta uguale. Gli strati sono composti da terre a volte di tipo diverso, a volte di colori diversi”

“E come si fa a capire dove finisce uno strato e comincia un altro?”

Gortina (Creta): muri, strati di terra, buche… tante interfacce da riconoscere.

Me lo chiedevo anche io quando studiavo sui libri e ancora non avevo mai fatto una esperienza di scavo: come farò a riconoscere gli strati?

Non si rischia di mischiare la terra di quello di sopra con quella di sotto…? Boh.

Continuavo a leggere e rileggere un passaggio del manuale in cui si diceva che gli archeologi prendono in prestito dai geologi il concetto di interfaccia proprio per indicare il punto di
passaggio tra una formazione e l’altra, una specie di punto di contatto tra due cose che si distinguono per caratteristiche differenti.

Un tipico esercizio per allenarsi a identificare le interfacce (disegno dell’autrice).

Teoricamente mi era chiaro ma mi rendevo conto che questa interfaccia era qualcosa che non avrei potuto toccare, al massimo vedere.

La faccenda si complicava parecchio e faceva crescere la curiosità per quella sorta di prima volta in cui sotto la trowel si sarebbe presentata lei, la tua prima interfaccia: avrei saputo riconoscerla?

Avrei saputo distinguere se si trattava di una interfaccia positiva o negativa?

Sì, perché il manuale continuava per l’appunto facendo anche una distinzione tra le interfacce positive e quelle negative. Mi sembra ancora di vedermi a casa della mia amica Alessia mentre
ripetiamo insieme il programma dell’esame:

“Le prime coincidono, in pratica, con le superfici di muri, di accumuli di terra e di tutte le unità stratigrafiche che sono il risultato di azioni di aumento della stratificazione”

“Giusto… e non devono essere numerate a parte perché appartengono a un volume che è quello dell’unità stratigrafica”

“Ok, ci sono… le negative invece?”

Qui venivano i dolori (una delle domande più temute dell’esame di Metodologia della ricerca archeologica).

“Le interfacce negative, che sono dette anche superfici in sé, sono il risultato di una traccia di asportazione di volume della stratificazione e devono essere numerate perché sono loro stesse la
traccia di una azione: i solchi lasciati dai carri, la distruzione di un muro, lo scavo di una fossa”

Mi sembrava così complicato e invece… sono bastati pochi metri cubi di terra a farmi passare la paura di cancellare una interfaccia con un colpo di trowel!

Alla fine poi non è difficile: le interfacce sono, come anche in altri ambiti, i punti di contatto tra due entità con caratteristiche diverse, i punti in cui la diversità è riconosciuta come valore perché ti permette di distinguere due “cose” come diverse, ognuna con le proprie caratteristiche.

E nessuno lo sa meglio di noi archeologi!

Non certo perché il concetto di interfaccia sia nostro, lo abbiamo preso in prestito dai geologi!

Ma perché noi stessi siamo delle interfacce, ovvero degli strumenti di contatto tra due mondi diversi, il passato e il presente.

Proprio a partire da questa semplice considerazione, è nato un progetto che si chiama proprio Interfacce e che mette l’accento sulla possibilità di costruire, attraverso il lavoro degli archeologi, un ponte tra il passato e il presente, che sono in fondo un po’ come due strati di terra: fatti della stessa cosa, ma con caratteristiche distinguibili. Due realtà lontane tra loro nella linea del tempo, ma vicine perché entrambe parte della storia di ogni uomo, due mondi che si cercano e che fanno fatica a parlarsi e capirsi.

Per questo ci sono gli archeologi!

Non per continuare a scoprire siti che non siamo poi in grado di proteggere.

Non per continuare ad accumulare reperti che non saremo in grado di esporre e che rimarranno in magazzini chiusi e polverosi.

Non per continuare a scrivere storie che non saremo in grado di raccontare.

Ma per aiutare la società contemporanea a stabilire un rapporto sano, produttivo e necessario con il proprio passato, una dimensione da cui ognuno di noi è attratto, un punto zero da cui abbiamo bisogno di ricominciare quando il presente ci presenta i conti che non sappiamo pagare.

Mi piace pensare che nel concetto di interfaccia stia molta dell’essenza del nostro lavoro e dei percorsi educativi che progettiamo e realizziamo con i piccoli e con i grandi.

L’archeologia a scuola ad esempio: non serve a “far diventare tutti archeologi”, per carità!

Serve a far sì che gli adulti di domani abbiano chiavi di lettura per vivere nel paese che ha la più alta densità di beni culturali al mondo

Interfacce a Vignale con i bambini : si impara a osservare il paesaggio e le sue trasformazioni attraverso il cannocchiale del tempo.

Serve a renderli consapevoli di avere un passato comune e che tutta quella strada fatta insieme è il tesoro più prezioso che noi archeologi possiamo aiutarli a scoprire.

Nel progetto Interfacce l’archeologia va per le strade, esce dalle aule e dalle recinzioni di cantiere; parla, racconta, recita, scrive e disegna per aprire tutti i possibili canali di comunicazione tra il passato e il presente e cerca di costruire un rapporto tra queste due dimensioni il cui valore non sta negli oggetti del passato, ma nelle persone che sono in grado di dare valore a quegli oggetti, raccontarli in maniera efficace e renderli un frammento di radice a
cui aggrapparsi quando il vento del presente cerca di portarci lontano dal nostro albero.

Per il nostro gruppo il progetto Interfacce è un progetto strategico che speriamo possa essere contagioso e virale. Per il momento lo stiamo sperimentando, con risultati molto interessanti,
con la comunità di Riotorto (LI) e del territorio circostante che lo ha condiviso con grande entusiasmo: sono attive diverse interfacce ormai consolidate come quelle con le scuole, interfacce ben avviate come quelle con le associazioni di volontariato, interfacce molto
promettenti con i centri socio-terapeutici.

Interfacce a Vignale con le associazioni : va in scena la storia di una scoperta davvero incredibile.

 

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Interfacce a Vignale con gli ospiti del centro diurno Fior di Loto: facciamo esperienza del nostro passato.

Ogni volta che si presenta l’occasione di attivare una nuova interfaccia è per noi una sfida: trovare linguaggi, strumenti, metodi, occasioni per mettere quelle persone, con le loro caratteristiche ed esigenze, in contatto semplice e diretto con il loro passato.

E perché poi?

A volte mi domando perché ci sia tanto entusiasmo intorno a questo progetto: una volta mi sono fatta coraggio e l’ho chiesto un po’ in giro. Qualcuno è appassionato di storia anche se nella vita
fa un altro lavoro, qualcuno giocava in quel campo da piccolo e ora non riesce a credere che proprio là sotto siano conservate tante storie.

Interfacce a Vignale con gli adulti: si riscopre il legame profondo con il proprio territorio.

Ma ho capito che stiamo andando nella direzione giusta quando una persona mi ha detto: “Voi ci raccontate le storie di cui noi abbiamo bisogno”.

Si può chiedere di più?

 

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