I post del lunedì

Un’avventura nell’officina di Efesto

“Riesci a vedere qualcosa?”

“C’è troppo fumo… non si vede nulla! Devo provare a sollevarmi ancora un po’…”

“Oooohhhh! Sta attento o finiremo per cadere tutti e due! Sbrigati! Non ce la faccio più a reggerti!”

“Ancora un attimo… Ecco, vedo qualcosa!”

“Cosa?”

“Un uomo seduto davanti ad un forno…”

“E poi?”

“C’è una statua enorme! Sembra un guerriero!”

“Forse è per il tempio! E poi?”

“Degli uomini ai piedi della statua che ne raschiano la pelle con gli strigili. E ci sono dei piedi appesi ad una parete…”

“Dei piedi?! Ma cosa stai dicendo?”

“Sì c’è un piede e anche una mano appesi con dei chiodi al muro. Sta fermo che provo a drizzarmi sulle punte…”

“Ahia! I tuoi sandali mi stanno facendo male alla schiena! Non ce la faccio più… Scendi… Sto perdendo l’equilibrio!!!”

“Ma che fai??? Aiuto! Cado!!! Oohhhh!!!”

Dall’interno della bottega si ode una voce gridare…

“Chi c’è là fuori? Mascalzoni!!! Dovete andar via, avete capito!!! Questo non è un luogo per bambini! Andate a giocare da un’altra parte e state alla larga dalla fonderia!”

La fonderia è un luogo magico e assai misterioso per i bambini come Aristeides e Hermas.

In città circolano strane voci su cosa accada davvero lì dentro. Ma ai più piccoli è assolutamente vietato entrarci. È un luogo troppo pericoloso, potrebbero ferirsi e fa così caldo che si rischia di star male. Così dicono i grandi. Ma Aristeides e Hermas sono troppo curiosi per credere senza batter ciglio a quello che gli si dice.

Una volta hanno visto un signore, sicuramente assai ricco e potente in città, entrare nella fonderia. Era arrivato a bordo di un carro con alcuni servi.
Qualche minuto dopo ne era uscito seguito dai suoi uomini che, con l’aiuto dei garzoni della bottega, avevano caricato una statua enorme sul carro.
Bellissima, possente, lucente e con degli occhi che sembravano fissarti per davvero. Uno sguardo magnetico.

“Uomini e donne di bronzo!” aveva esclamato Aisteides commentando l’accaduto con il suo amico. “Te lo dico io cosa succede lì dentro: rubano il cuore e gli occhi dei defunti e li mettono dentro le statue di bronzo. E poi le portano al tempio per consacrarle agli dei, altrimenti sarebbero maledette”.

“Ma è impossibile! Il cuore e gli occhi non si possono strappar via dal corpo di un morto!”

“E invece sì. Te lo dimostrerò. Ho un piano: ci nasconderemo sotto il davanzale della finestra della bottega. Poi, salirò sulla tua schiena e cercherò di scoprire cosa accade dentro”.

“Ma perché devo stare io sotto?”

“Perché tu sei più pesante di me. E poi l’idea è stata mia, si fa come dico io!”

Come sia andata a finire l’avete letto tutti.

L’intuizione di Aristeides, a dirla tutta, era vera solo a metà.

La fonderia nel mondo antico era un’officina in cui artigiani specializzati lavoravano il metallo, bronzo soprattutto, per produrre urne, recipienti, brocche, vasellame da mensa e altri oggetti. Ma soprattutto qui venivano realizzate enormi statue, assai spesso di divinità o eroi o sovrani, destinate ai templi e alle dimore dei ricchi signori. Pezzi unici, opere di altissimo valore che in alcuni casi ancora oggi possiamo ammirare nei musei. Penso ai Bronzi di Riace o al noto Auriga di Delfi.

Bronzi di Riace, V secolo avanti Cristo (Museo Nazionale di Reggio Calabria).
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Auriga di Delfi, V secolo avanti Cristo (Museo di Delfi).

La maggior parte delle statue in bronzo, tuttavia, sono andate perse per sempre, per una ragione molto semplice: il bronzo era un materiale molto pregiato e spesso, molti anni dopo essere state forgiate, le statue venivano fuse per ricavare il bronzo liquido e adoperarlo per altri scopi.

Realizzare statue di dimensioni umane interamente in bronzo era un’operazione lunga e faticosa, che richiedeva impegno e conoscenze tecniche ben precise.

Uno dei metodi più diffusi, soprattutto tra il 500 e il 400 avanti Cristo, era quello detto “indiretto”, evoluzione della tecnica a cera persa.

Provo a spiegarvelo: lo scultore realizzava una sagoma in argilla uguale alla statua bronzea che intendeva produrre. Poi, per ogni parte di questa sagoma, creava delle matrici e prima le spennellava all’interno con della cera e poi vi versava un miscuglio di terra e materie organiche.

A questo punto, ciascuna di queste matrici, corrispondenti alle diversi parti del corpo (testa, piedi, gambe, ecc.), veniva rivestita di argilla e lungo le superfici di questa pelle artificiale erano posizionati dei piccoli canali fissati all’anima interna con dei chiodi. Nei canali si versava il metallo liquido e solo quando si era solidificato, si rompeva la corazza esterna in argilla e si estraeva il pezzo di statua finito.

Parte di statua con canali di colata e camicia esterna in argilla (Fonderia Battaglia, Milano)

A quel punto, la parte più complessa del lavoro era fatta; lo scultore doveva assemblare le diverse parti, raschiare via i residui della fusione con degli strigili, proprio uguali a quelli che usavano gli atleti per detergersi il sudore. E poi inserire le labbra, ottenute da una lega di rame e di colore rosso, gli occhi, in marmo o pasta vitrea, le ciglia, ricavate da sottili lamine di bronzo. E poi ancora scolpire i capelli o la barba. Un lavoro delicato e certosino che alla fine conferiva alla statua un aspetto assai realistico.

Forse è per questo che il nostro Aristeides credeva che in fondo quegli uomini e quelle donne di bronzo nascondessero qualcosa di umano. Probabilmente il cuore o gli occhi, altrettanto vivi e luminosi.

Il lavoro in fonderia è ben descritto nelle scene dipinte di un’antica coppa a figure rosse, ritrovata nella città etrusca di Vulci, datata al 490/480 avanti Cristo e oggi conservata in un museo di Berlino.

Non è un caso che, colui che l’ha studiata, l’abbia chiamata la “Coppa della fonderia”, perché sulle pareti del recipiente sono raffigurati i personaggi che lavoravano nelle fonderie dell’epoca, colti nelle diverse mansioni. Una sorta di “silent book”, un libro con sole immagini e senza parole.

E così su un lato della coppa osserviamo un artigiano, seduto su uno sgabello e col il tipico cappello da bronzista, che sta rimestando i carboni nel forno.
Alle spalle del forno un secondo uomo sta forse azionando con il mantice il fuoco. A destra, accanto ad un artigiano in piedi, uno scultore sta unendo le diverse parti della statua. Sembra un pupazzo senza testa! Ed eccoli il piede e la mano appesi alla parete di cui parlava Aristeides. Sono matrici da cui ricavare piedi e mani di altre statue.

Coppa della Fonderia, lato A (Antikenmuseum, Berlino).

Sull’altro lato della coppa, due artigiani stanno rifinendo una statua di guerriero, con la lancia in una mano e lo scudo nell’altra. Ci sono due uomini in piedi accanto a loro, forse il proprietario della bottega e il ricco signore a cui sarà venduta la statua.

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Coppa della Fonderia, lato B (Antikenmuseum, Berlino).

Ma se osservate con più attenzione e poi chiudete gli occhi e lasciate lavorare l’immaginazione,
potete scoprire dell’altro: sentire l’odore denso di carboni di cui l’aria è impregnata, avvertire netta la sensazione di calore soffocante che quasi impedisce di respirare, distinguere il rumore stridulo dello strigile che raschia la superficie della statua, ascoltare le conversazioni in greco tra gli artigiani e i due uomini togati…

È un luogo infernale la fonderia. Si lavora sodo, senza tregua. I bronzisti hanno costantemente la pelle bagnata di sudore e le mani sporche di fuliggine. Ma dalla loro fatica nascono opere meravigliose ed eterne.

Non è un caso che nella mitologia greca ci fosse un dio del fuoco e della metallurgia.

“Vulcano forgia le folgori per Giove”, Pieter Paul Rubens (XVII secolo).

Questo dio era Efesto, brutto, zoppo e deforme dalla nascita, ma con una gran forza nei muscoli delle braccia e delle spalle e assai abile nel modellare il metallo per ricavarvi opere straordinarie, di una perfezione e splendore rari.

Fu proprio ad Efesto, infatti, che Teti chiese di forgiare le armi e lo scudo per l’invincibile figlio Achille.

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Teti attende le armi di Achille nella fucina di Efesto. Affresco dalla Casa del Triclinio di Pompei (Museo archeologico, Napoli).

Quelle stesse armi con cui Achille avrebbe combattuto contro Ettore uccidendolo e che poi, dopo la sua stessa morte, sarebbero state contese tra Greci e Troiani, giungendo infine in possesso dell’astuto Ulisse.

Ma questa è un’altra storia.

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