I post del lunedì

Archeo…Teens

Nel suo post di un paio di settimane fa, Elisabetta, ci dimostrava come fosse possibile parlare di archeologia anche a bambini molto piccoli, in età pre-scolare, semplicemente mettendoli nelle condizioni di capire che ogni oggetto è portatore di un pezzetto di informazione e che tanti oggetti insieme possono raccontare una storia.

A parte questa preziosa eccezione, su queste pagine vi abbiamo raccontato quasi sempre di esperienze che vedevano coinvolti bambini delle scuole elementari. Il motivo è molto semplice: è a quell’età che è importante far capire ai più piccoli quanto anche il dato materiale contribuisca alla formazione di quelle nozioni, talvolta astratte e lontane dalla loro quotidianità, che si trovano a dover studiare per la prima volta nei libri di Storia.

Detto questo, è dunque lecito pensare che il ruolo “educativo” che l’archeologia può svolgere nei confronti dei più piccoli si esaurisca in queste prime fasi di approccio con il passato? O invece è possibile, anzi auspicabile, che questo linguaggio inusuale con cui siamo in grado di raccontare ciò che è stato, serva anche nel seguito del loro percorso di studi, o in generale della loro esperienza formativa? Insomma, come si declina l’archeologia quando i “kids” diventano “teens”?

Un paio d’estati fa, sono state queste le domande alle quali io e Nina abbiamo dovuto provare a dare una risposta soddisfacente quando siamo state coinvolte in un bel progetto della Croce Rossa Italiana che aveva organizzato un campo estivo per ragazzi dai 14 ai 20 anni a Vetulonia, cittadina di antiche origini etrusche nel grossetano.

Tante all’apparenza le difficoltà oggettive: si trattava di gestire per un’intera giornata degli adolescenti (di cui potevamo essere le sorelle maggiori e già il rischio “credibilità” aleggiava a mo’ di spauracchio), provenienti da varie parti d’Italia, con età ed esperienze molto diverse, capitati lì per varie ragioni (e non sempre di loro spontanea volontà) e comunque per stare insieme divertendosi; organizzare “attività culturali” (al pronunciare queste parole già me li immaginavo svenire o correre via urlando) che prevedessero la conoscenza del luogo (un paesino di 300 abitanti su uno di quei cucuzzoli della Maremma che gli Etruschi amavano tanto) che immancabilmente, temevamo avrebbero portato a incessanti sbadigli, “smanettamenti” compulsivi dei cellulari, sguardi vitrei al terzo minuto di noiosissima spiegazione sull’importanza della figura di Isidoro Falchi, barbuto promotore della stagione di scavi e ricerche che in nome di cotanto zelo si era aggiudicato imperituro ricordo e riconoscimento in un museo a lui intitolato che, ovviamente, sarebbe dovuto essere il clou della giornata (anche perché, ragazzi miei, quello c’è da vedere a Vetulonia).

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Era evidente che una visita canonica “museo+vicina necropoli” con relativa spiegazione fosse da scartare a priori. Ma era altrettanto indiscutibile che i nodi imprescindibili del percorso conoscitivo fossero proprio quei due. Dopo una certa dose di elucubrazioni, il giusto compromesso – tra un certo rigore scientifico e la necessaria dose di intrattenimento intelligente – ha finalmente preso forma, sostanza e pure un nome: “Gli Archeogiochi”.

Innanzitutto una divisione per squadre (e già lì, un “bella zio” ci ha dato l’impressione di aver fatto la scelta giusta a puntare su un po’ di sana competizione), ognuna delle quali portava il nome di un animale in lingua etrusca. Giusto per creare un po’ di senso di appartenenza, abbiamo dato a ciascun componente un nastro da usare come braccialetto in cui scrivere il nome del gruppo rigorosamente con le lettere dell’alfabeto etrusco. Il resto del kit, consegnato al caposquadra, prevedeva una pianta del museo, dei cartoncini con degli oggetti antichi esposti nelle sale e una cartina dell’area delle necropoli in stile mappa dei pirati.

Prima tappa: il museo. Una brevissima introduzione per rispolverare nella loro memoria di cosa stessimo parlando, chi fossero gli Etruschi, cosa ci abbiano lasciato, come ciò che vedessero fosse finito in quelle vetrine. La prima sfida prevedeva, per ogni squadra, l’individuazione di tre oggetti antichi a partire da una foto o un disegno e di specificarne un’ipotesi d’uso (non sempre così facile da immaginare, soprattutto per quelli che non esistono più e a dispetto dei cartellini – vedi il “graffione” qui sotto – e qui si potrebbero aprire parentesi infinite sull’oscurità di certe didascalie nei musei…). Una volta finito il tempo, il ricontrollo per assegnare i punteggi è stato il momento comune in cui ognuno si è trovato a dover raccontare e spiegare agli altri gli oggetti toccati loro in sorte e quale uso ne avesse ipotizzato. Un modo, insomma, per aprire il confronto e spingerli ad analizzare ogni elemento con la giusta attenzione.

 

Seconda tappa: fuori dal museo. La seconda sfida prevedeva una riproposizione del famoso gioco di società Taboo: di nuovo tre oggetti per ogni gruppo e quattro parole da non utilizzare per farli indovinare ai compagni di squadra in un minuto di tempo. Si trattava in ogni caso di manufatti che avevano avuto modo di osservare poco prima nelle vetrine, un espediente, per “fermare” nella memoria ciò che in alcuni casi avevano appena avuto modo di imparare.

 

Terza ed ultima tappa nel pomeriggio: la caccia al tesoro fotografica nella necropoli etrusca. Inutile dire che è stata l’attività più entusiasmante. 10 indizi uguali per tutti, una mappa per orientarsi in un percorso sterrato di circa un chilometro in cui potersi muovere liberamente tra le varie tombe con lo scopo di notare, mettere a fuoco (in tutti i sensi) e immortalare un dettaglio che quasi sicuramente, in una visita canonica, sarebbe sfuggito.

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Non ricordo, a fine giornata, quale risultò la squadra vincente. Ma ricordo bene che mentre il sole iniziava a calare, li sentivamo ancora discutere su chi avesse visto per primo l’animaletto inciso sulla parete della tomba, su quanto alcune ragazze avrebbero voluto indossare una di quelle meravigliose parure d’oro o su chi avesse il merito di aver capito cosa fosse “quel coso strano con quelle specie di punte che poi neanche si sa bene a che serve di preciso… il, come si chiama…?” “Il graffione, cojone!”. Le nostre pretese, di farli avvicinare anche solo per poche ore ad un mondo culturalmente complesso e lontano come quello etrusco, di far loro apprezzare le origini di quel luogo in cui avrebbero passato una settimana spensierata e di far loro riconsiderare il “microcosmo museo” non più come un luogo barboso in cui ascoltare passivamente una serie di spiegazioni, ma in cui imparare a guardare, a porsi domande e a cercare risposte, potevano insomma dirsi soddisfatte.

 

…e, a questo proposito, sono piuttosto certa di una cosa: nessuno di loro avrà dimenticato cosa sia un “graffione” e se mai un giorno dovessero vederne un esemplare esposto in una vetrina di un museo, potranno fare sfoggio di erudizione e vantarsene con gli amici!

 

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