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Quella volta che ho visto il Medioevo: ahia, scotta!

Giovedì scorso, in compagnia di Simone e dei suoi compagni di classe, eravamo arrivati qui, davanti a quest’olla fumante poggiata sul fuoco. Già, il fuoco…


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Eravamo tutti attorno a quel fuoco, a dire la verità un po’ scialbo, come se non avessimo mai visto un focolare acceso. Nell’olla  ribolliva dell’intruglio poco invitante alla vista, ma dall’aroma gradevole. Ci spiegò l’archeologo che questa era una forma di “pignatta” molto comune e veniva impiegata per moltissimi usi oltre a quello di pentola da cucina. I frammenti di questi manufatti si trovano in gran numero nella stratigrafia di uno scavo e sono la gioia e il dolore di ogni archeologo perché alle volte non si capisce bene a quale periodo preciso appartengano. Ci fece girare alcuni pezzi originali: erano neri, rugosi al tatto e ancora con della fuliggine nera che restava attaccata ai polpastrelli.

 

Frammento di olla tratto da “Nogara, archeologia e storia di un villaggio medievale”, a cura di F. Saggioro, Roma 2011.

 

La Ganazzin fu subito colta da un raptus di curiosità e partì a mitraglietta: – Ma quanti anni ha questo pezzo? Quanto grande era? Di che colore era? Perché ci sono i sassolini bianchi dentro? La usavano i maghi?
L’archeologo sorrise facendo trasparire una sensazione di dolcezza, come un padre quando nasconde la sensazione di orgoglio per un figlio brillante.
– Beh, sappiate che, in effetti, la forma di questi recipienti, nonostante in casa nostra sia praticamente scomparsa sostituita da più resistenti pentole in acciaio, la conoscete bene, come ci insegna la vostra compagna! – Disse l’archeologo con fare ironico.
La Ganazzin era confusa, aveva un’espressione mista tra la tronfia soddisfazione e una turista persa a Venezia con una cartina di Padova.
– Avrete sicuramente presente come erano fatte le pentole per fare le pozioni magggiche! – disse triplicando scherzosamente la “g”. – Quella è una forma talmente diffusa che è rimasta nella memoria collettiva, un esempio di archeologia della mente! –
– Lo sapevo che era la pentolaccia della strega!!! – gridò la Ganazzin euforica con il piglio di chi sembrava che se ne intendesse. E in effetti di incantesimi diventò esperta, ma solo qualche anno più tardi, quando li cominciò ad usare per conquistare i cuori inermi degli ingenui maschietti.

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– Ma veniamo al dunque, il fuoco. Pensate a quanto ha modificato nella storia il nostro stile di vita. Siete di fronte alla ricostruzione di un “fornello domestico”, “una caldaia”, un “antizanzare” e… un “amico”. – L’archeologo ci guardava con sguardo beffardo sapendo che le nostre teste macinavano sceneggiature degne di un film fantasy. Le mie le avrei vendute a caro prezzo.
– Zanzare? – Chiese la Ganazzin, che venendo da una zona dove le vendono un tanto al quintale era interessata.
– Amico ? – Chiese la Mariolli, pensando alla dicotomia tra il gioco e il fuoco, notoriamente pericoloso.
– Fornello? – Domandò il Brombin per cui il cibo era una mission.
L’archeologo ci spiegò che, nella casa del medioevo, il fuoco era il cuore pulsante delle attività domestiche. Era il centro della vita familiare, permetteva di cuocere i cibi, in certi casi di produrre strumenti da lavoro, riscaldava e teneva l’ambiente asciutto allontanando con il potere del fumo animaletti funesti come zanzare, zecche, topini. Era sopratutto il fulcro attorno al quale si riunivano le famiglie e si raccontavano storie con le quali si tramandava la conoscenza e la cultura di una comunità, di generazione in generazione, tra mito e realtà.
– Chissà quanto antiche sono le leggende che ruotano attorno alle saghe dei mitici vichinghi, ad esempio. E chissà quanti fuochi sono stati testimoni di quelle leggende. Il fuoco diventa quindi la nostra memoria storica ed ognuno di noi ne ha uno che arde dentro, perché possiate un indomani, trasferire qualcosa di nuovo e di bello  alle generazioni future. Non permettete mai di far spegnere quel fuoco dentro di voi. Siate sempre curiosi anche delle piccole cose. –
Quante cose guardando il fuoco…
Finalmente arrivò il momento dell’accensione.
Mazu fu marcato a uomo dalla prof. perché conosceva il potenziale esplosivo del ragazzo. Già mi immaginavo la scena: il gruppo scolastico sullo fondo del cielo plumbeo illuminato dalle alte fiamme della capanna. Ma fortunatamente non fu così.
Scoprimmo che veniva comunemente usato uno strumentino di ferro, chiamato acciarino di cui svariati esempi archeologici attestano il suo uso in tutta Europa. Il modello che aveva in mano l’archeologo assomigliava ad un baffo, anche se quell’attaccabrighe di Mazu ci vedeva un tirapugni. Per farlo funzionare bisognava sfregarlo contro qualcosa di molto duro come una selce, una pietra particolarmente dura.

 

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L’archeologo cercò la suspense nei nostri occhi, ormai eravamo tutti archeologi “inside”.
– tchack!, tchack!, thcack! –
L’oooh di stupore era scritto e doveva solo diventare verbo. Quelle scintille che scaturirono per brevi istanti ci proiettarono veramente in un attimo in una dimensione d’altri tempi, in cui momentaneamente avevamo smarrito il nostro feed-back culturale moderno e ci sentivamo veramente stupiti di qualcosa di semplice, senza effetti speciali e 3D digitali. Le scintille non erano nuove per noi, ma il senso di quel gesto, forse non ancora focalizzato nella sua potenza espressiva, l’avevamo colto. La scintilla dell’origine, il fuoco della vita e il suo contrasto con la distruzione che poteva generare. Pensavo a quanto guardavo i film di guerra con mio nonno (me li faceva guardare nonostante il diniego di mia madre, perché in quanto reduce si sentiva investito da una missione educatrice), alle scene di esplosioni col napalm, a quando bruciavo i fogli di giornale nel caminetto e anche al piacere conviviale delle grigliate domenicali con i genitori.
Una scintilla era stata catturata da un’esca che si trasformò in brace, un attimo che si trasforma in continuità. Il soffio leggero alimentava un puntino rovente dentro una matassa di erba secca che diventava sempre più grande e intensa, tra mille piroette di fumo denso che cominciarono a danzare attorno a noi. Un po’ di fumo mi entra in una narice facendomi tossire. La Mariolli mi porge una caramella sorridendo e in quel momento sentii una strana morsa al petto. Un lampo caldo illuminò i nostri volti, il batuffolo di erba ardeva scintillante tra cori di ovazione estatici. La magia era compiuta.

 

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