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Laboratori e dintorni

Ho cominciato a pensare e a fare laboratori di preistoria per le scuole nel 2008, abbiamo iniziato con la simulazione dello scavo stratigrafico di una capanna, con la trowel, il pennello, la pala, il secchio, la terra, la sabbia, la breccia, gli strati e tutto il resto. Questo con i bambini della IIIa classe primaria. Spesso sono partito dalla loro spontaneità, altre volte ho buttato giù dei passaggi sul taccuino, e comunque alla fine delle tre ore filate che dedichiamo loro, tra riproduzioni di lance e frecce con la punta di selce, chopper, falcetti neolitici, asce di rame, ocra e carbone, lo scavo, la manipolazione dell’argilla, il trucco etnico e la prova della caccia, sempre abbiamo creduto di essere riusciti nell’impresa, qualunque essa sia.

Abbiamo anche sperimentato un laboratorio etnologico con i bambini della scuola materna, abbiamo dipinto loro il volto con i decori tipici delle culture­ altre a noi ancora contemporanee, e così conciati li abbiamo fatti incidere, cacciare, scavare e immaginare altro dalla loro quotidianità già densamente popolata di cartoni animati, tablet e pubblicità.

 

Da grandi non tutti faranno gli archeologi (e questo è anche da sperarlo); qualcuna o qualcuno ci proverà, magari perché magicamente affascinato dal laboratorio appena concluso, chi lo sa? Boh?

Io ho cominciato grazie ai documentari che trasmettevano il pomeriggio, e da questo deduco che tutto può succedere e che ogni scusa è buona per provarci.

Il punto però è perché?

Perché prendere questi bambini che non sanno un bel nulla di preistoria e di archeologia, percepiscono il tempo e lo spazio o lo spazio­tempo in modo molto istintivo, un giorno può durare un anno, e non si ricordano mai cosa hanno fatto per le vacanze estive, non ricordano nemmeno se erano al mare o in montagna. Poi magari un giorno se ne escono con una cosa da nulla che si ricordano da quando avevano tre anni, una caduta, un ginocchio sbucciato oppure una giornata in cui sono stati sempre tappati in casa ma hanno giocato con quel gioco da tavola che chissà dove è finito. Questo fanno i bambini e noi archeologi pretendiamo in qualche modo di spiegare loro cos’eravamo tanto tempo fa. Siamo pazzi o geniali?

In realtà la questione è un pochino più seria e si potrebbe forse articolare in tre risposte.

1. Perché gli archeologi, come tutti, vogliono lavorare, vogliono essere parte attiva della società e quindi si impegnano come e dove possono, compresi i laboratori didattici.

2. Perché si vuole avvicinare la società civile alla conoscenza delle culture passate, i laboratori sono allora la prima opera di una sensibilizzazione verso la cultura che dovrà proseguire anche dopo, si spera. E che passa anche dall’avvicinare i bambini, le insegnanti e gli insegnanti, e le famiglie alla professione dell’archeologo.

3. Perché effettivamente un laboratorio di archeologia può rivestire un ruolo fondante nel percorso di crescita dei bambini. Un laboratorio,che sia orientato alla preistoria o all’età classica, permette ai bambini di porre le basi giuste sopra le quali sviluppare capacità cognitive e psico­attitudinali, ancor prima che storico­-archeologiche, che saranno utili nel proseguimento della loro formazione umana.

Il punto è che fin’ora nessuno o molto pochi si sono sinceramente domandati se queste tre risposte funzionano sul serio, e se ne esistano altre (Archeokids in questo è ancora una volta un blog pioniere). Ultimamente l’ambito della didattica di archeologia è entrato a far parte di un ampio dominio di ricerca quello dell’Archeologia Pubblica, teorizzato e approfondito nel mondo anglosassone già dagli anni ‘70, mentre da noi ancora alla fine degli anni ’90 chi faceva didattica era considerato un po’ sfigato, uno che non aveva preso il Dottorato, per dire.

Rileggendo i tre punti il terzo appare come il più astratto, impalpabile e insicuro. In altre parole: ma che davvero il metodo archeologico (processualista, post­processualista o neo processualista) può dare un contributo allo sviluppo psico­fisico del bambino?

Personalmente trovo che questa sia una domanda dalla risposta non proprio scontata. Comincio a pensare che ci sia della pedagogia dentro l’archeologia. Accompagnare i bambini in mondi che non conoscono e contribuire alla loro educazione attraverso quel che possiamo dare come archeologi, permettere loro di sperimentare un metodo di comprensione ancor prima che di indagine, di scavare sia in senso fisico la terra, che in modo immateriale nella loro immaginazione per cercare dal piccolo e dal particolare di ricostruire un mondo che può essere solo immaginato, sono tutte esperienze che difficilmente possono essere prodotte con altri laboratori diversi da quelli archeologici.

 

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All’altro estremo trovo che i laboratori facciano bene agli archeologi, tanto più a quelli italiani, estromessi dal mondo del lavoro professionale da un mercato inesistente. I laboratori avvicinano la società civile all’archeologia: figli, insegnati e genitori, ma anche direttori scolastici, cooperative di servizi e cooperative sociali che gestiscono spazi e servizi culturali. Tutte persone, e quindi professionalità, che finalmente si relazionano con la nostra, permettendo agli archeologi un’emancipazione dal mondo strettamente legato alle università e alle soprintendenze.

Basta farsi un giro sui siti specializzati anglosassoni per rendersi conto dell’abisso che separa il nostro italico modo di intendere il mestiere dell’archeologo da quello britannico. Là si cercano archeologi come il pane, archeologi con un profilo professionale ben delineato nei diversi settori dell’archeologia, non come da noi dove non esistono annunci di lavoro e non esistono altri ruoli per gli archeologi che non riescono ad accedere alle posizioni accademiche o amministrative, se non il frequentare cantieri, trincee, gallerie fino al giorno in cui non decidano di cambiare aria.

Tutto questo anche per dire che il post di Samanta ‘Archeologia pubblica e bambini: un binomio felice’ mi è sembrato geniale sopratutto nell’affermare che i bambini rappresentano degli ideali catalizzatori che favoriscono l’incontro tra l’archeologia e la società, tanto più che loro si divertono e pure noi.

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