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I bambini nell’antica Grecia. Parte terza.

Eccoci all’ultima tappa del nostro viaggio nell’antica Grecia, guidati come sempre da Flavia Frisone, docente di storia greca all’Università del Salento, alla scoperta del mondo dell’infanzia.

Se vi siete persi le prime due puntate, potete trovarle qui e qui. Le differenze tra passato e presente – abbiamo visto – sono tante, diversi (ma non troppo) i giochi e giocattoli, i riti, i modelli educativi, rilevanti soprattutto le differenze tra i bambini e le bambine, i primi destinati alla vita pubblica, le seconde condannate a vivere e crescere tra le mura domestiche. “Erano tempi duri per essere bambini”, scrive Flavia, ma è anche vero che c’è una cosa che questi bambini di ieri possono insegnare a quelli di oggi: imparare a ritrovare la libertà di divertirsi all’aria aperta, lontano da cellulari e televisori, la capacità di inventare giochi dal nulla affidandosi solo alla propria fantasia, il desiderio di annoiarsi ascoltando magari il frinire delle cicale o guardando fuori dalla finestra. E’ estate, non c’è stagione migliore per lasciare che i nostri bambini siano liberi di esplorare il mondo da soli.

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C’è stato, tra gli autori greci antichi, qualcuno che ha dedicato alcune sue opere o scritti all’infanzia?

A questa domanda è un po’ più difficile rispondere. Al contrario di noi, che pensiamo all’infanzia come a un’età speciale e importantissima, gli antichi la ritenevano una stagione “marginale” della vita e la consideravano poco. Questo è il motivo per cui noi sappiamo pochissimo dell’infanzia nel mondo antico, ma è anche la ragione che spiega il perché non si scrivessero favole, racconti, opere letterarie speciali per i bambini. Le opere fatte per educare o insegnare qualcosa, specie quelle dei poeti chiamati perciò didascalici, valevano per grandi e per bambini e, come abbiamo detto, si imparavano a memoria a scuola o si ascoltavano nelle cerimonie pubbliche. Per i cori di ragazzi e ragazze si scrivevano poesie che essi poi avrebbero eseguito in varie occasioni ufficiali, ma i contenuti non erano adattati all’età degli esecutori ma alle circostanze.

E quando più tardi, in età ellenistica, si diffuse la moda di componimenti che si chiamavano “giochi da bambini” (paignia), era tutt’altro che letteratura per l’infanzia. Molti autori, specialmente filosofi, dedicarono i loro scritti all’educazione dei bambini e dei ragazzi, che come abbiamo visto era un tema molto sentito, ma queste opere difficilmente erano destinate ai più piccoli, anzi.

In realtà c’è un campo in cui anche studiosi importanti e grandi scienziati si cimentarono: l’invenzione di giochi. Come Archimede, ad esempio, che inventò una sorta di rompicapo geometrico e giochi linguistici e matematici o Archita, un famoso filosofo e uomo politico di Taranto che si dice avesse una particolare attenzione per l’infanzia, tanto che gli piaceva trovare modi per divertire i bambini che stavano nelle sue fattorie e, a quanto pare, arrivò a studiare e a costruire per loro degli speciali giocattoli a sonagli.

Quanto al mondo dei bambini, dapprima esso entra nelle pagine dei grandi autori antichi solo con qualche breve e bellissima immagine, un paragone, un accenno patetico, come quello del bambino di Ettore che, nell’Iliade, si spaventa delle armi del padre e scoppia a piangere o i figli di Medea che, nella tragedia di Euripide, continuano a giocare senza curarsi dell’angoscia della loro madre.

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Ettore saluta la moglie Andromaca e stringe tra le mani il figlioletto Astianatte prima di partire per la guerra (dipinto di Joseph Marcellin Combette, 1810).

Più tardi, quando poeti e scrittori si divertiranno a far entrare la realtà nelle opere letterarie, le scene riprese dalla vita quotidiana sono molto più frequenti e dettagliate, e riguardano anche bambini e ragazzi: li vediamo a scuola, sgridati dai genitori o picchiati dai maestri, mentre giocano fra di loro, magari sotto le spoglie di divinità-bambine come Eros, o in quadretti familiari di capricci, scambi affettuosi con i genitori, piccoli dolori causati dalla morte di un uccellino di un grillo canterino a cui un poeta finge di comporre un epitaffio.

Ma, per rispondere, visto che anch’io sono una mamma, credo che sia bello ricordare i versi che la poetessa Saffo canta per sua figlia:

Ho una bella bambina che ha l’aspetto dei fiori d’oro, Cleide, l’amore mio, e non la do a nessuno se anche mi desse in cambio tutta la Lidia

Se dovessi chiederle di indicarmi un oggetto o un qualsiasi elemento (giocattolo, reperto, verso, affresco, ecc.) o un avvenimento che più degli altri, a suo parere, racconta dell’infanzia nella Grecia antica, cosa sceglierebbe?

M’impantanerei nella difficoltà di scegliere. Perché ci sono mille scene e mille oggetti che mi sembra raccontino le tante sfaccettature di quel mondo, le mille infanzie della Grecia antica. Penso ai bambini raffigurati come adulti in miniatura nelle decorazioni delle ceramiche arcaiche e classiche – perché era così che li vedevano: adulti in formato ridotto. Ma poi mi viene in mente la bellissima stele funeraria di Ampharete, da Atene, che racconta di una nonna e di un nipotino che per l’eternità si guardano negli occhi con amore. Penso all’Eros-bambino ricco che fa i capricci e vuole subito la bella palla splendente che la mamma Afrodite gli ha promesso (nel III libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio) e mi ricordo del piccolo decoratore di vasi che lavora accanto alla mamma e al papà nell’officina raffigurata su un cratere attico della prima metà del V secolo.

 

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Stele funeraria di Ampharete. La donna regge in grembo il nipotino e gli mostra un uccellino (Museo archeologico del Ceramico, Atene, 430-420 avanti Cristo).

Oppure al sorriso contento della piccola “orsetta”, della bambina ateniese che nel tempio di Artemide a Brauron ha finito il suo periodo di servizio alla dea, e lascia in ricordo una statua che la raffigura tutta elegante mentre stringe il suo coniglietto o ancora ai bambini che sulla ceramica attica sono ritratti a scuola, con in mano le tavolette incise di tante lettere o con il rotolo di cui ripetono i versi a memoria. Ma poi mi vengono in mente, nelle immagini della ceramica o nei versi dei poeti, le tante figure di ragazzine e ragazzini che danzano, suonano, faticano duramente per il mondo degli adulti. Erano tempi duri per essere bambini, mi dico. E subito mi sembra che mi smentiscano il sorriso triste della bella bimba che su una stele attica di età classica abbraccia per sempre le sue colombe, le risate dei ragazzini che la poetessa Anite raffigura in strada mentre giocano a cavalcare un caprone o le lacrime della piccola Mirò per il suo grillo e la sua cicala…

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Stele funeraria che raffigura una bambina che, con sguardo malinconico, abbraccia le sue colombe (Metropolitan Museum of Art, New York, 450-440 avanti Cristo).

Immagini che un bambino/a del V secolo avanti Cristo possa lanciare un messaggio attraverso il tempo ad un suo coetaneo della nostra epoca. Cosa gli direbbe secondo lei?

Io credo che un bambino del V secolo avanti Cristo resterebbe molto sorpreso a vedere quanto tempo i suoi coetanei moderni passano chiusi in casa, a guardare la televisione o ai videogiochi.

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Li guarderebbe sconvolto mentre se ne stanno chini, in silenzio, a maneggiare apparecchi digitali e telefonini, anche se sono in compagnia di amici o fuori splende il sole. E penso proprio che li inviterebbe a uscire all’aria aperta, a muoversi in libertà e a inventare giochi. Vorrebbe forse insegnare loro a creare un ranocchio da una buccia di melagrana e un sogno da una palla di stracci.

Giovanna

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